Lassù non ci si sbraccia, non si fanno scene di esultanza. Piuttosto si tira il fiato, si scattano fotogrammi per documentare, per un nostro ricordo, però a braccia basse. Non c’è una sola foto di Hillary sull’Everest in quella prima salita del ’53. Hillary aveva l’apparecchio e fotografò Tenzing, il contorno delle montagne intorno, ma non chiese a Tenzing di fagli una fotografia. Hillary era lassù a nome collettivo, era solo un rappresentante della specie umana. Il colpo di umiltà che da la precedenza all’impresa, non a chi la compie.

L’interesse per un alpinismo esplorativo nasce dal desiderio di andare oltre la semplice scalata di una montagna: è un richiamo all’ignoto, alla scoperta, alla prima volta. In un’epoca in cui molte delle grandi vette, ghiacciai, grotte, forre, ecc. sono state già conquistate. L’alpinismo esplorativo sposta il focus dalla performance tecnica alla dimensione dell’avventura, della ricerca, dell’autenticità del viaggio. Autosufficienza e spirito pionieristico, dove il successo non è solo raggiungere la meta, ma scoprire, documentare e aprire nuove possibilità per altri. E’ un approccio che privilegia territori poco conosciuti o inesplorati, regioni senza una cartografia dettagliata. Esplorare significa vivere un’esperienza unica, non replicabile, in cui l’incertezza è parte del fascino. Si riscopre il valore del “by fair means”, salire con mezzi leali, minimizzando l’impatto sull’ambiente e cercando di non lasciare tracce. L’esplorazione è spesso accompagnata da un forte desiderio di raccontare, – attraverso diari, documentari, articoli – l’aspetto culturale, umano e geografico del viaggio.
Oggi parliamo del remoto e difficile Fosso del Malepasso, situato nel cuore del settore orientale del Gran Sasso, precisamente nel sottogruppo del Monte Brancastello, Pizzo San Gabriele e Cima delle Fienare. Proprio in questo profondo vallone dimenticato, avvolto da una fitta vegetazione e protetto da pareti di roccia antichissima, già qualche anno fa, mi spinsi fino a raggiungere un’alta parete dove documentai l’esistenza di una cascata, mai segnalata prima su mappe ufficiali. Oggi, purtroppo, questa cateratta non c’è più, in virtù del cambiamento climatico che in questo periodo storico è devastante. La cascata, era alta circa una trentina di metri, scendeva con un fragore cristallino da una parete calcarea ricoperta di muschio, creando alla base un laghetto dalle sfumature turchesi. Tuttavia, mentre si effettuava l’avvicinamento il suono dell’acqua era continuo, cavernoso. Un ruggito lontano che si incanalava tra le pareti di roccia come un respiro antico. Una labile traccia su una vecchia carrareccia, a servizio della, oramai remota pastorizia, ci ha condotto a delle balze erbose strapiombanti. Assicurato su arbusti e spuntoni di roccia si raggiunge la parte più profonda della forra. La scoperta di piccoli iceberg, rivenienti da crolli di neve valanghiva, è un evento raro ma possibile, soprattutto in questi remoti anfratti, dove il monitoraggio è sempre più difficile. Oltre alla bellezza paesaggistica, questi blocchi di neve potrebbero avere un’importanza ecologica significativa. Non è ancora tutto perduto… La fusione di tutta questa neve genera torrenti e piccole cascate, laddove l’acqua racconta storie che l’uomo ha appena cominciato ad ascoltare. La forra si perdeva tra le felci e lamponi, sembrava inghiottirsi nella montagna. Solo un tratteggio interrotto, quasi dimenticato.
Giornate così hanno una cometa lunghissima.












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