A scuola con il treno e col “somaro” di Augusto Franciosi.

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Correva l’anno 1943 del mese di maggio,  frequentavo la terza  media presso la scuola G. Mazzini, in Via Sassa all’Aquila. Facevo il pendolare: prendevo il treno a Fossa alle 7,20 e a L’Aquila, al suono della campanella (alle 8,30) ero sempre puntuale all’ingresso della scuola. Dopo il brutto inverno di quell’anno, con tanto freddo e neve, fare il pendolare era un vero “divertimento”;  lungo il tragitto da casa alla stazione venivo accompagnato dal canto degli uccellini e non più dall’ululato dei lupi. In verità non avevo paura perché non ero solo. Mi faceva compagnia il postino Zaccaria Bonanni,  il quale –ogni mattina- ritirava la posta dallo stesso treno diretto all’Aquila. Zaccaria abitava a “Pavecca” e ci incontravamo in Via dell’Osteria. Dalle impronte nella neve capivo se mi aveva preceduto. Se non c’erano segni mi appostavo dietro la stalla di Cesidio e mi accodavo appena lui raggiungeva la via.  Quando vi erano quaranta centimetri di neve non era agevole camminare; così, dopo un po’, Zaccaria mi chiedeva di passare avanti: “Dai, passa tu un po’ avanti!”; “neanche per sogno…. se perdo il treno per me non fa niente, ma per te sono guai se non ritiri la posta”. Allora lui cominciava a fare dei lunghi passi e io ero costretto a saltare per mettere i piedi sulle orme nella coltre bianca. Anche questo era divertimento.   Riprendiamo il discorso da quella mattina di maggio. Arrivato alla stazione, il buon Ettore –il capostazione- spiegò che il treno non sarebbe passato chissà per quanto tempo, poiché nella notte degli aerei inglesi avevano distrutto un tratto della ferrovia Sulmona – L’Aquila. Tornai indietro indispettito, pensando al danno che gli odiati inglesi mi avevano procurato. Alle “Cannavine” vidi mio padre che era  già al lavoro nell’orto. Lo chiamai, lui alzò la testa  e mi guardò stupito: “Si pèrse u trèn?”. Gli spiegai cosa era successo. “I mo?”, esclamò. “Domani andrò a scuola con la bicicletta”, risposi. Volevo fermarmi per dargli una mano, ma lui disse di andare a casa a studiare. La mattina dopo alle sette saltai sulla bici e corsi come un treno. Adoravo la mia “idea” verde con la forcella cromata. Mi piaceva correre e soprattutto mi piacevano le salite. Per questo, spesso mi spingevo fino ad Antrodoco a trovare Zia Maria. Che delizia! Prima la salita fino a Sella di Corno, e poi la picchiata sul paese! La mattina successiva arrivai con largo anticipo a lezione, forse avevo battuto il record Fossa-L’Aquila in bici! Quando arrivò Venicio (che era in classe con me però stava in collegio dai Salesiani con altri due ragazzi di Fossa), inquadrato in un plotoncino di collegiali, lo presi in giro: “Credevo tu fossi accompagnato dalla monaca!”, “tu piuttosto, ieri hai fatto sega!” Gli spiegai l’accaduto. Mi guardò senza parlare mentre ci dirigevamo in classe. All’intervallo, Venicio, con fare molto serio, guardandomi bene negli occhi mi disse: “Oggi non torno al collegio, Tu mi riporti a Fossa e domani veniamo a scuola insieme; non ti lascio da solo”. Lui aveva un bicicletta da donna e lo prendevo in giro. Per una decina di giorni le bici fecero un lavoro eccellente, poi, fra buche e breccia, incominciarono le forature. Spesso dovevamo lasciarle in quella casa prima dell’ingresso nella strada asfaltata e correre a piedi. Proseguimmo ancora un paio di giorni con una sola bici, ma alla fine dovemmo arrenderci. Non volendo tuttavia rinunciare alle ultime lezioni dell’anno scolastico, il somaro divenne il nostro mezzo di trasporto. L’idea dell’asino fu di Venicio: “ma la gent’i Fossa, come ce va all’Aquila? Che j’asene, no?”. Il primo giorno partimmo alle 5,30, alle 7,35 eravamo già al portone della scuola. Quando tutti gli alunni furono entrati, portammo il somaro in cortile, lo legammo ad una colonna e poi salimmo in aula. Tutto sembrava tranquillo. Alla terza ora, entrò in classe come una furia la Preside, Professoressa Femminella, donna severa e terrore degli alunni. “Sto cercando il padrone del somaro in cortile”. Grande risata della scolaresca. Venicio ed io ci alzammo contemporaneamente. “Ah, è vostro? Siete dei maleducati! Questa è una scuola e non una stalla”. Cercammo di spiegare che venivamo da Fossa che era il primo giorno e non avevamo trovato un posto adatto per ricoverare l’asino. “Potete venire anche dalla luna, io non posso sopportare questa indecenza! Adesso, intanto andate a  pulire  il regalino del vostro somaro, e non ci provate più”. Il giorno dopo partimmo alle 6, alle 8,00 eravamo a Piazza Fontesecca, dove legammo il somaro alla fontana. Quando,  dopo la lezione,  tornammo  a riprenderlo, un vecchio ci disse di non lasciarlo perché potevano rubarlo. Mi ricordai allora, quando mio nonno andava a L’Aquila lasciava il somaro in un locale a Porta Bazzano, gestito da un certo matto, che tutti chiamavano “Pazzò”. Così l’asino stava in un posto sicuro. Certo per noi si allungava il percorso, perciò occorreva partire una mezz’ora prima. Non vorrei che pensaste “poveri ragazzi”. Per noi era quasi un’avventura. Durante il ritorno, arrivati alla deviazione per Fossa, ci mettevamo sull’animale uno di fronte all’altro e facevamo i compiti, mentre l’asino era libero di fermarsi, ogni tanto, per pascolare sui bordi della strada. Quanto tempo impiegavamo al ritorno? A volte quattro o cinque ore. Non avevamo fretta e i compiti venivano fatti. Grazie a quel vecchio somaro dalle lunghe orecchie, riuscimmo ad assistere alle lezioni fino all’ultimo giorno. Mio padre mi concesse una settimana di riposo prima di riprendere l’occupazione estiva: portare al pascolo le nostre due mucche.  (Tratto dal periodico la Ciciuvetta)

 

Augusto Franciosi (1929) ottobre 2022 (foto Daniela Franciosi pubblicata su facebook)

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